In medicina legale con il termine “referto” ci si riferisce alla relazione che l’esercente una professione sanitaria, il quale abbia fornito attività in casi che possono presentare le caratteristiche di un delitto per il quale si debba procedere d’ufficio, deve presentare all’autorità giudiziaria o ad altra autorità che a questa abbia l’obbligo di riferire. Ciò per dire che nel caso in esame più che a un “referto”, da un punto di vista “giuridico” e medico legale, siamo in presenza di un “certificato”. E, sempre la medicina legale (cfr. Norelli e altri, Medicina Legale e delle Assicurazioni, ed. Piccin, 2009) insegna che il “certificato” è l’atto scritto che dichiara conformi a verità fatti e condizioni di natura tecnica, direttamente obiettivati dal sanitario e di cui il certificato è destinato a provare l’esistenza; è, dunque, una testimonianza scritta su fatti e circostanze tecnicamente apprezzabili e valutabili, la cui dimostrazione può produrre la affermazione di particolari diritti soggettivi previsti dalla legge ovvero determinate conseguenze a carico dell’individuo e della società, aventi rilevanza giuridico/ammnistrativa.

Alla luce di quanto sopra, è indubbio che se è l’infermiere l’esercente la professione sanitaria che esegue l’accertamento in argomento, ossia il tampone, è indubbio che potrà essere lui solo ad accertarne la “risposta” ossia il risultato del test diagnostico. Questo non significa “fare diagnosi” ma significa indicare la risposta (o referto, utilizzando il termine non in senso giuridico) (positiva o negativa) che il test fornisce.

Avv. Giannantonio Barbieri

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